Biennale Musica/I Sentieri Selvaggi e la nuova musica moscovita

 

 

Sentieri Selvaggi,Venezia, 55. Festival Internazionale di Musica Contemporanea
Sentieri Selvaggi,Venezia, 55. Festival Internazionale di Musica Contemporanea

 

Biennale Musica 2011: Venezia, Teatro Malibran, 29 e 30 Settembre 2011, Sentieri Selvaggi e Studio for new music Moscow.
Sentieri Selvaggi e Studio for new music Moscow sono due ensemble quasi coetanei: infatti, il gruppo milanese è stato fondato nel 1997 da Carlo Boccadoro, Filippo Del Corno e Angelo Miotto, mentre il 1993 è l’anno di nascita della formazione russa all’interno del Conservatorio di Mosca, grazie all’ucraino Vladimir Tarnopolski, docente di Musica Elettronica.


Queste due realtà così luminosamente attive nel panorama della musica contemporanea si sono fatte ascoltare al Teatro Malibran, in due serate consecutive dell’edizione appena conclusa di Biennale Musica, che il direttore Luca Francesconi ha emblematicamente intitolato Mutanti, alla ricerca di «cosa passa dall’imbuto» della radicale rivoluzione tecnologica dei nostri anni, capace, con l’impetuoso fascino delle cose nuove, di ghettizzare un sapere millenario nutrito di profondità e di riflessione, in cui il tempo è necessaria durata, in nome delle magnifiche sorti e progressive di un’informazione veloce quanto un istante, che al tempo stesso si percepisce e si consuma.
Francesconi dice che «è una Biennale piena di artisti “visionari”, di trasgressori, di gente che non sta in un recinto e guarda oltre, di gente che sa annusare le mutazioni e riproporre valori che vanno comunque salvati.»
E dunque a che cosa guardano Sentieri Selvaggi e Studio for new music Moscow?
Di primo acchito, la risposta potrebbe essere fin troppo chiara: ad Occidente i solisti guidati da Boccadoro, al vasto Est della Grande Madre Russia i moscoviti, che presentano tutti autori russi, alcuni ancora under 30, e tutti legati al Conservatorio di Mosca.

New Music Moscow (c. Fedor Sofronov), Venezia, 55. Festival Internazionale di Musica Contemporanea
New Music Moscow (c. Fedor Sofronov), Venezia, 55. Festival Internazionale di Musica Contemporanea

Peraltro, un Occidente ben più composito della Monument Valley percorsa da John Wayne, e una Russia aperta anche ad ispirazioni lontane da sé: una briciola di Emily Dickinson, un concerto in re minore di Bach, e un concerto italiano, anzi Italianishe.
I sentieri dei valorosi musicisti italiani si fanno selvaggi nell’andare, ma hanno la tradizione come punto di partenza, «musiche che hanno a che fare con altre musiche», come dice Boccadoro; anzi, le tradizioni, archetipi eterogenei per natura e distanza temporale: ab origine non può che stare la Grecia di Aktaí, opera di Christina Athinodorou, giovane compositrice cipriota, peraltro formatasi alla Guidhall School londinese e al Conservatorio di Lione, pregnante e misterica come liquido amniotico. A lei si contrappone il ghigno fiammingo di Dulle Griet, famoso dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, che ha ispirato a Giovanni Verrando una nuova riflessione sui suoi studi di psicoacustica, concentrati su quella zona impervia e decisiva in cui il rumore si fa suono. Tradizionale per antonomasia è quella melodia del Seicento inglese su cui si applica Steve Martland in Kick, progressivamente straniata dai suoi tratti formali, eppure capace di mantenere il suo spirito compunto di danza antica e al contempo beffarda e sguaiata quanto un canto di taverna.
Il violino di Piercarlo Sacco ha il compito, arduo per tecnica e spirito, di rendere l’omaggio alla tradizione del blues che lo stesso Boccadoro ha realizzato in Hot shot Willie, dedicato a Blind Willy McTell, bluesman che negli Anni Venti rivoluzionò la tecnica chitarristica del fingerpicking. E l’evocazione di un’altra chitarra, questa volta elettrica, la prima utilizzata da Jimmy Page dei Led Zeppelin, percorre il brano di Mark-Anthony Turnage, ironicamente intitolato Grazioso!, appellativo lontanissimo dalla violenza ritmica e dall’aggressività enfatizzata del rock che si indurisce nell’heavy metal.
Chiude il concerto un autore che a sua volta si è fatto tradizione: Steve Reich, il maestro del minimalismo, con il premiatissimo Double Sextet, opera in quattro movimenti del 2007, in cui il sestetto sul palcoscenico dialoga col suo doppio registrato; uno sdoppiamento anche d’ispirazione, che unisce jazz e minimalismo, riconducendo i pattern armonici jazzistici dentro le strutture iterative che del minimalismo sono la cifra distintiva.
Invece, per gli intrepidi moscoviti le ispirazioni provenienti dal passato più che esempi da meditare e trasformare sembrano essere visioni oniriche, talmente lontane da pretendere uno sguardo estremamente presbite per essere intese, perché la realtà di queste musiche sta in un’intensa sperimentazione materica, che si nutre di se stessa: ecco l’«ensemble preparato» di Vladimir Gorlinsky, che in Ultimate granular paradise impiega svariati oggetti, sia applicati agli strumenti tradizionali che tastati come strumenti in se stessi, fra cui una pompa, un bastoncino, un nebulizzatore, un piatto, una latta, un leggero foglio d’alluminio, e altri ancora. E, su tutto, formidabili apporti elettronici, che caratterizzano tutti i brani presentati.
Addirittura in Eugenica. Italianishe concerto di Nikolay Khrust i musicisti in sala improvvisano, interagendo con il sistema elettronico; è una situazione molto diversa dal Double Sextet di Reich, in cui l’elettronica è funzionale a creare uno specchio, che duplica il sé in altro da sé: infatti, qui a dominare è la contrapposizione-conciliazione fra l’imprevedibile della musica eseguita hic et nunc e il caso studiato delle campionature elettroniche.
Anche Olga Bochihina con Unter der Kuppel hervor riflette sul tema del contrasto, in questo caso su varie coppie di timbri, che giocano fra loro fino a raggiungere un’organizzazione interna unitaria, quasi si trattasse di un unico strumento.
Dunque, in questo indefesso sperimentare, della tradizione restano forse soltanto due omaggi letterari, guarda caso da parte dei due autori d’età più matura: l’uno reso da Tarnopolski, il fondatore dell’ensemble, a Platonov e al suo Chevengur, della cui forza distruttiva di ogni convenzione grammaticale e sintattica egli propone una traduzione in musica, e l’altro a firma di Faraj Karaev, A Crumb of Music for George Crumb, che dal cognome del musicista dedicatario risale a una poesia di Emily Dickinson, e da questa arriva a una musica che nasce da una bruma poco distante dal silenzio e al silenzio ritorna.
Illusioni, più che punti di partenza, secondo l’emblematico titolo di Alexey Sioumak, Illusion of Concerto. Forse un qualche concerto di Bach, come spiega l’autore, ma anche echi dei grandi concerti romantici per solista e orchestra, e di Rachmaninov.
E, comunque sia, una memoria perduta nella lontananza.
Nicoletta Confalone

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