
Nel 1864 il possidente Antonio Gobatti commissiona al pittore veneziano Giovanni Biasin il primo incarico di cui si abbia notizia nella città di Rovigo: le decorazioni della propria dimora dominicale a Porta Sant’Agostino. Di questo ciclo, situato al piano nobile dell’edificio, rimane oggi qualche significativa testimonianza nel salone centrale e in due delle quattro sale laterali distribuite secondo il modello classico della pianta veneta di ascendenza altinate.
Nel salone è raffigurato un aereo loggiato di gusto neoclassico dipinto a monocromo e ritmato da colonne trompe-l’oeil in finto marmo rosso di Verona che si aprono come quinte sullo sfondo paesaggistico delle Quattro Stagioni. Qui sono rappresentati altrettanti episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio: Il Ratto di Proserpina , Cerere e Trittolemo, Bacco e Arianna. Nel dipinto del Biasin la quarta coppia ovidiana, Borea e Orizia, è stata sostituita con Zefiro e Flora, episodio chiave di questo ciclo.
L’impianto scenico degli episodi figurativi riflette l’algido modello santiano caratterizzato da un neoclassicismo attardato, di stampo accademico, già formulato a Venezia nel primo decennio dell’Ottocento nel cantiere napoleonico – poi austriaco e quindi italiano – del Palazzo Reale sotto la guida di Giuseppe Borsato e dei numi tutelari Percier e Fontaine.
Il debito di Giovanni Biasin nei confronti del figurista muranese è dichiarato nella citazione delle eleganti Danzatrici e Dee dagli incarnati luminosi e i delicati volti ovali, ma specialmente nello splendido nudo del Bacco /Libero, realizzato a dimensioni naturali e direttamente mutuato con l’attributo della tigre dal Trionfo di Palazzo Camerini a Rovigo realizzato dal Santi nel 1844 ca. Anche Il Carro di Apollo, altra divinità solare contornata dalle personificazioni dei sei pianeti del Pantheon romano, è dipinto a grisaille nel centro del soffitto alla maniera santiana, al pari delle allegorie dell’Estate e dell’Abbondanza presenti tra gli intercolumni.
Tuttavia la cifra dell’immagine muta registro rispetto alla cristallizzazione iconografica neoveronesiana che l’anziano maestro esprime nella sostanza di un’impeccabile lavorazione a fresco: nella pittura del giovane decoratore Giovanni Biasin la forma acquista una dimensione più umana grazie all’introduzione di gamme calde e sature stese con segno rapido e una sapiente tecnica a tempera che non opacizza nel tempo; inoltre, l’ornatista si avvale di linee serpentinate per conferire alla scena un movimento vorticoso che – con residui di maniera ed entro i limiti di evidenti imperfezioni e rigidità – veicola l’impeto romantico in una genuina tensione espressiva tesa al coinvolgimento del fruitore nell’interpretazione dei temi ovidiani.
Infatti l’originale riferimento naturalistico, ma soprattutto mitologico e iniziatico alla rivoluzione solare che si realizza nel ciclo delle stagioni, è trasferito dal contesto di un’umanità primigenia alla statura eroica dei protagonisti di un rinnovamento collettivo che finalmente avanza, di una lungamente attesa primavera risorgimentale che culminerà solo due anni più tardi, con la liberazione del Veneto, alla quale Giovanni Biasin e Antonio Gobatti avevano contribuito in prima persona, pagando caro il prezzo della sconfitta: il primo con una lunga malattia, dopo aver partecipato alla difesa di Marghera e dell’Estuario nel ‘49 e il secondo, sostenitore dei moti del ’48, dell’emigrazione politica e tra i fondatori della Legione Euganea, con l’esilio in Piemonte e un sequestro di beni. Entrambi si riebbero e Gobatti, che come Ovidio esperì l’esilio, divenne poi presidente e principale finanziatore dei restauri della Società del Teatro, la cui decorazione fu rinnovata nel 1858, tra gli altri, da Sebastiano Santi.
Nel 1864 tuttavia il Veneto era ancora oppresso dall’Austriaco e il proprietario terriero nonché Colonnello della Guardia Nazionale rodigino, trovò in Giovanni Biasin piena corrispondenza ideologica, proprio in quel periodo oscuro della storia della penisola in cui l’arte si stringeva agli ideali di libertà e se ne faceva veicolo e manifesto. In particolare, pensiamo alla funzione ch’ebbe il teatro d’opera e, nel caso della pittura, alle imprese in chiave risorgimentale degli artefici formatisi all’Accademia di Venezia e al cantiere di Palazzo Reale. Gli stessi che, diretti da Giovan Battista Meduna, nel 1847 parteciparono alla decorazione di Palazzo Giovannelli nell’occasione del 9° congresso degli scienziati italiani a Venezia, “copertura formale ad una attività politica di netta ispirazione antiaustriaca” , di cui fu fautore Daniele Manin. La medesima scuola che, nel 1842, con Giuseppe Jappelli, aveva allestito le sale del Caffè Pedrocchi in stle “greco, arabo, etrusco, pompeiano”, in occasione del 4° congresso degli scienziati italiani ospitato dall’Università di Padova.
Pur inserita in un contesto provinciale ed espressa in un linguaggio attardato rispetto allo stile Biedermeier adottato negli apparati esornativi di cui sopra, anche la decorazione del Palazzo rodigino (cui poi fu affiancata la sede della Guardia Nazionale), grazie all’incontro di Antonio Gobatti e di Giovanni Biasin, diventa a pieno titolo ambasciatrice di un discorso civile e umano di portata storica e universale. Proprio in questi anni, infatti, tra gli intellettuali e i patrioti si fa strada la consapevolezza, per dirlo con le parole di Pietro Selvatico, che l’arte decorativa, nei suoi diversi stili, sia divenuta “La più efficace delle favelle” per manifestare la consapevolezza storica di un popolo delle comuni origini dell’umanità e su queste basi dichiarare la propria concreta volontà di emancipazione.
Roberta Reali