Il superamento della distonia nella musica di Leon Fleisher

Leon Fleisher, Two hands, cd, 2004, Indie Blu Music Holdings LLC, 51551
Leon Fleisher, Two hands, cd, 2004, Indie Blu Music Holdings LLC, 51551

La distonia focale del musicista è la sorella stupida del Parkinson. È pure lei un disordine neurologico del movimento, ma non cagiona terribili e umilianti invalidità per il normale vivere quotidiano. Semplicemente non ti permette più di suonare. Tutto qui.

È una sorta di ipereccitazione dei gangli della base o della corteccia sensomotoria – sono ancora molti i misteri di questa malattia – che dovrebbero coordinare i movimenti dei muscoli, e che invece, dopo anni di comandi puntuali e precisi da parte di chi con le mani vuole creare suoni e dunque emozioni, vengono presi dal panico o dall’insofferenza alla disciplina, e si imbizzarriscono; ne consegue che il delicato e vitale palleggio fra muscoli flessori e muscoli estensori all’improvviso impazzisce in un fuoco di fila di contrazioni violente e incontrollabili. E addio musica.

Malattia professionale la chiamano, secondo la logica inconsapevolmente perversa e penosa di chi reputa la vita un contenitore da riempire di attività, che siano professioni oppure hobby poco importa, perché entrambi sono tendenzialmente sostituibili con altre professioni e altri hobby; l’importante è che le prime facciano guadagnare il più possibile e diano una riconoscibilità sociale, e i secondi permettano di trastullarsi negli scampoli di tempo lasciati liberi, e spesso esausti, dal lavoro: il contenitore deve essere sempre bello pieno, così le persone si autoconvincono di essere meravigliosamente flessibili, mentre la realtà non è che una triste e disumana intercambiabilità.
Al contrario, la musica dovrebbe essere un’arte, e dunque figlia della passione, essenzialmente distante dalla dialettica fra lavoro e tempo libero.
Leon Fleisher, The journey, cd, 2010, eOne Music, ATM-CD-1796
Leon Fleisher, The journey, cd, 2010, eOne Music, ATM-CD-1796

Allora, se sei un musicista e ti capita per disgrazia di incappare nella sorella stupida del Parkinson, quella finta innocua, ma capace di annaffiare le rose con la candeggina, e farle stecchite, non fai che desiderare ardentemente di ammazzarla. Però non puoi dirlo, né tantomeno farlo, anzi ti devi sorbire con fair play i più svariati e premurosi consigli: c’è chi ti suggerisce che cosa piantare al posto delle tue amate rose, ma anche chi ti rimprovera di aver permesso alla deficiente di entrare in giardino, e poi c’è chi adora i fiori secchi e le decorazioni, e ti convince ad un inutile corso di décupage con i petali di rosa.

Devi pure ringraziarli tutti, commossa per l’interessamento, anche se talvolta i tuoi istinti di reazione sarebbero assai più brutali. E devi anche ringraziare la Natura, tutto sommato benigna, perché a sbarrarti il passo non è stato Mr. Parkinson in persona, né altri terrificanti figuri, che costringono i loro prescelti a camuffarsi con parrucche e bandane, per esorcizzare la chemio, o ad accoppiarsi con servizievoli carrozzine, per supplire a gambe ormai scollegate dal cervello.
È solo distonia focale, baby, e tu sprizzi salute da tutti i pori, non dimenticarlo mai.
Se dunque non interessa a nessuno la storia di chi continua con ostinazione a coltivare ancora le proprie rose, nonostante l’aiuola sia marcia di candeggina e la sorella stupida si aggiri sempre pericolosamente in giardino, la faccenda si fa diversa quando ad essere toccato da questa sventura è un trentasettenne di sfolgorante talento, uno dei più straordinari pianisti della sua generazione. Correva il 1965 e Leon Fleisher era conteso dai più importanti teatri del mondo; nonostante la sua ancora giovane età, era già leggendaria la sua interpretazione del Primo Concerto di Brahms, registrata nel 1958 con George Szell alla guida della Cleveland Orchestra. Ma quando il quarto e il quinto dito della sua mano destra cominciarono pericolosamente ad accartocciarsi nel palmo e a non volerne sapere più di scivolare rapidi e flessuosi fra l’avorio e l’ebano dei tasti, anche un fuoriclasse come Fleisher dovette ritirarsi dalle scene.
Leon Fleisher and Ann Midgette, My nine lives A memoir of many careers in music, autobiografia. USA, Doubleday, 2010
Leon Fleisher and Ann Midgette, My nine lives A memoir of many careers in music, autobiografia. USA, Doubleday, 2010

Comunque non si arrese, nonostante all’epoca la lotta fosse ben più difficile, perché il nemico era del tutto innominato. Infatti, si comincia a parlare di distonia focale a partire dagli anni Novanta, mentre in precedenza i medici, confortati dalla notoria ipersensibilità dei musicisti, erano portati ad ipotizzare vaghi problemi, di natura psicotica, la cui competenza era dunque degli psichiatri più che dei neurologi. Così Fleisher si avventurò in un aspro cammino, fatto di pellegrinaggi a presunti luminari, di sedute di ipnosi, diete purificanti, iniezioni miorilassanti, umore a tratti collerico, a tratti serrato nell’incomunicabilità di una malattia senza dolore, a tratti depresso, sul ciglio del suicidio, sempre difficile da sopportare, a tal punto da far scoppiare il suo secondo matrimonio. Ma, nonostante tanta sofferenza, egli è riuscito fin da subito a convogliare le sue energie creative oltre la prediletta tastiera, diventando direttore d’orchestra e maestro apprezzatissimo e generoso per generazioni di pianisti.

Si è addirittura reinventato una carriera di solista con la sola mano sinistra, riprendendo il repertorio, spesso di grande valore, come dimostra il Concerto di Ravel, scritto appositamente per quei pianisti sfortunati, che avevano perso l’uso di una mano, primo fra tutti Paul Wittgestein, fratello del filosofo Ludwig, a cui era stato amputato il braccio destro sul fronte polacco, durante la Prima Guerra Mondiale. Wittgestein dopo  la guerra riprese la sua attività di pianista, e, grazie alla sua pervicacia e ai suoi denari, riuscì a convincere tanti importanti compositori, fra cui appunto Ravel, a scrivere per lui.
Dunque per Fleisher la distonia focale, paradossalmente, si è tramutata in un formidabile stimolo ad essere più profondamente musicista, perché, come scrive nella sua bellissima autobiografia, My nine lives, uscita due anni fa negli Stati Uniti, «La musica non è nelle mie dita. È nella mia mente.»
Eppure gli mancava qualcosa: il contatto, a due mani, con la tastiera, perché suonare significa protendersi in una dimensione ibrida, in quanto il suono è prima di tutto un fenomeno fisico, e dunque terrestre, ma, al tempo stesso, la sua non appartenenza ai sensi più carnali – non si tocca, non si gusta, non si vede – lo rende una sorta di tramite verso una realtà altra, non più fisica, ma spirituale.
Per chi ascolta, a prevalere è la trascendenza del suono, ma chi è cresciuto suonando, e dunque possiede la chiave per dischiudere questa dimensione a sé e agli altri, grazie alla confidenza con il proprio strumento, autentico medium espressivo, fatto di legno, metallo, corde, ance, martelletti, pistoni, e altre diavolerie, ma in ogni caso sonoro, allora è difficile rassegnarsi al fatto di aver perso la chiave.
Questo Leone indomito l’ha cercata per trent’anni, e quando è diventato un canuto e saggio signore vicino alla settantina, ecco, la sua chiave l’ha finalmente trovata.
Nel suo caso a funzionare è stato un misto di Rolf, una disciplina fisioterapica, e di microiniezioni di botulino, ma non è questa l’unica strada riabilitativa, pur tenendo sempre presente che la distonia focale resta tuttora una malattia misteriosa e inguaribile, salvo rare eccezioni di remissione completa dei sintomi. Si può però trovare una strada per addomesticare la belva, pur nella consapevolezza che suonare in sua compagnia è sempre un viaggio avventuroso, in cui l’allenamento conta relativamente, anzi, può contribuire a farla infuriare; conta molto di più, assicura Fleisher, la capacità di affrontare gli imprevisti, e superarli, nel nome della musica.
Dunque, come nelle favole, Fleisher ha ricominciato a suonare a due mani, ed è riuscito addirittura a tenere un recital da solista alla Carnegie Hall, ad incidere due cd di una bellezza limpida e commovente, Two hands e The journey, da ascoltare con emozione e riconoscenza, senza vergognarsi delle proprie lacrime, e a scrivere un’autobiografia ironica, disincantata, ma insieme straboccante di passione e di entusiasmo. Ma, soprattutto, è riuscito a suonare di nuovo il Primo Concerto di Brahms, il suo talismano, il brano in cui  più di ogni altro si è riconosciuto. Una sorta di specchio, capace di riflettere  con esattezza quel che è cambiato, ma anche di far riflettere sul senso del cammino percorso.
Il 23 luglio prossimo Leon Fleisher compirà 84 anni, ancora attivo, con umiltà e orgoglio.
Da uomo, degno di questo nome.
Perchè, come lui stesso scrive, «It wasn’t perfect. But it was mine.»
Nicoletta Confalone

2 risposte a “Il superamento della distonia nella musica di Leon Fleisher”

  1. Un articolo stupendo, scritto con indescrivibile sensibilità e profonda cognizione della materia.
    Angelo Tajani

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