
Come ogni anno nella piccola graziosa cittadina romagnola di Santarcangelo si anima il Festival Internazionale del Teatro di Piazza, quest’anno arrivato alla 45. edizione. Anche quest’anno affidata alla direzione artistica di Silvia Bottiroli e della sua rinnovata e giovane équipe di collaborazione.
In questi 10 giorni di spettacoli si potrebbe quasi notare che il festival abbia tentato di dare continuità alle ricerche e proposte durante tutta l’anno, rimanendo fortemente radicato alla sua vocazione internazionale.
E infatti si notano varie proposte che hanno lavorato con gli abitanti e i luoghi di Santarcangelo già nei mesi precedenti o che coinvolgono direttamente la cittadinanza interpellandola e mettendola a confronto.

Il progetto dello svedese Markus Öhrn ad esempio ha lavorato con un gruppo di signore del posto creando con loro il progetto Azdora che ha accompagnato quotidianamente le giornate del festival con riti performativi che mettevano in questione le attività delle signore e allo stesso tempo interrogava la forma performance stessa. Azdora in dialetto romagnolo vuol dire “reggitrice”, indica la padrona del focolare, la madre di famiglia, unica responsabile della condotta della casa. Il rito#1 ad esempio vedeva la presenza del gruppo delle signore/azdore riunite intorno a una lavatrice, in sottofondo musica incombente. La relazione totemica tra il gruppo e l’elettrodomestico aveva il suo apice nel tentativo organizzato ma totalizzante di rompere la lavatrice con un bastone che si passavano tra di loro le signore romagnole. Ogni rito è stato unico e sempre nello spazio Sagi allestito a tema del Club delle Azdore un luogo con un atmosfera vicina al black metal.
Some use for your broken clay pots dello svizzero Christophe Meierhans dopo alcune repliche in teatro è venuto sul palco in piazza Ganganelli con il suo spettacolo che coinvolge spettatori e cittadini in un dibattito di 2 ore, proponendo un sistema democratico fittizio che il performer tenta di “vendere” al pubblico come un’alternativa migliore alle nostre democrazie contemporanee. Una elegante e ben organizzata provocazione sui tempi in cui viviamo, dove il testo dello spettacolo è la costituzione dello stato democratico che viene illustrato e proposto dal performer e continuamente interrotto da domande, dubbi, osservazioni più o meno approfondite, sentite, emozionate, razionali etc. Si mescolano così spaccati di vita quotidiana a riflessioni sui massimi sistemi dell’organizzazione politica che ci circonda e che vorremmo. In sintesi, un esercizio di creatività costituzionale in cui in un certo senso dentro e fuori del palco riecheggia il comizio politico. Si sfidano le capacità di immaginare un’alternativa mettendo in discussione i limiti della nostra concezione di democrazia.

Importante ricordare inoltre che sempre Meierhans insieme a Luigi Coppola hanno curato l’iniziativa del Fondo Speculativo di Provvidenza, ovvero la creazione di una somma di denaro comune destinata a uno scopo deciso collettivamente. Ogni biglietto del festival è stato maggiorato di un euro e sempre di un euro è stato sottratto a tutti i compensi di lavoratori e artisti, o aggiunto ai biglietti gratuiti di giornalisti e ospiti. Inoltre ogni euro corrisponde a una quota del Fondo e al diritto/dovere di voto e partecipazione alle varie proposte di utilizzo del fondo. Ognuno può liberamente fare proposte per l’utilizzo del denaro raccolto. Anche questa iniziativa che ha visto il coinvolgimento diretto del pubblico, dei cittadini e della comunità intera del festival.
Importanti anche le pubblicazioni editoriali fortemente volute dalla direzione artistica e curate con strategia del risparmio ai fondi che mancano. How to build a manifesto for the future of a festival? È una delle tre pubblicazioni presentate durante l’ambito della School of exception, percorso teorico per un gruppo ristretto di artisti e/o curatori con alcuni momenti pomeridiani aperti al pubblico. Interrogarsi su come poter dare continuità e che ruolo ha il fare arte oggi, si mescola con la necessità di dare spazio alla memoria e andare all’archivio del festival, citarne parti forse dimenticate o sconosciute ai più. Un modo importante per dare spazio al confronto teorico, assente spesso in altri festival e molto valorizzato in questa edizione di Santarcangelo.

Tra le presenze ormai di casa a Santarcangelo si ricordano i Motus ovvero Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con la prima assoluta e svariate repliche affollatissime di MDLSX (middlesex). Nell’intimo spazio del Teatrino della Collegiata. Uno “scandaloso” coming-out di Silvia Calderoni che, dopo dieci anni di lavoro con i Motus, da corpo e anima a un esperimento apparentemente di un formato dj/vj per aprire porte inesplorate e autobiografiche mescolalte a citazioni letterarie: Cal è infatti il diminutivo della Calderoni e di Calliope, protagonista ermafrodita del romanzo di Jeffrey Eugenides. E MDLSEX oscilla costantemente dentro la confusione, tra fiction e realtà. Come se proprio in questo spiazzamento continuo voglia comunicarci qualcosa di inenarrabile, insieme a tutto l’ovvio e meno ovvio che il tema sul gender tange. Un cut-up a tratti crudo a tratti poetico in cui autori come Butler, Haraway e Preciado si intrecciano e in qualche modo dialogano in questa performance-mostro dove la sirenetta si mescola a karaoke demodé o a fiori che sbocciano mentre divampano le paure della scoperta di sé e di un desiderio di essere se stessi, solo per citare alcune degli attimi che con ritmo si alternano durante tutto lo spettacolo.
Sempre di casa, quest’anno alla seconda edizione troviamo la Piattaforma della Danza Balinese. Progetto temporaneo dedicato alle pratiche corporee della ricerca contemporanea sempre a cura dei coreografi italiani Michele Di Stefano, Fabrizio Favale e Cristina Rizzo insieme a Silvia Bottiroli, direttrice artistica del Festival. E proprio loro lo definiscono “Come un evento climatico non previsto, si inserisce e condiziona la normale durata e programmazione di un festival, con una concentrazione di oggetti coreografici e un susseguirsi di attività parallele […] Balinese è lo sguardo estemporaneo di un ensemble di artisti che si voltano simultaneamente nella stessa direzione, temporeggiano sul presente e ogni giorno inaugurano qualcosa con la complicità prezosa di molti”. La verità è che risulta molto difficile definire la Balinese, proprio perchè non è un formato, non è perimetrabile o riconoscibile davvero in una codificazione verbale. Forse potremmo dire che è lì nel qui ed ora e se ci sei ti avvolge o ti disperde, impreziosisce o banalizza , ricondensa o frantuma. Di sicuro è altro dal previsto, pone fuori dalle aspettative. Una programmazione dentro la programmazione del festival dove delle idee sul corpo vengono messe in circolazione. Passando da one-second moviment, quartetti, terzetti, assoli, duetti, allegorie performative attimi di vuoto sonori, c’è chi si presenta come il re delle hawaii e offre denaro per ballare, chi fa playback precisissimi e allo stesso tempo surreali, chi vuole rielaborare l‘energie sexuelle sulle note di pussycat, chi rimbalza, corre, dichiara, afferma, prende la bandiera e la volteggia dentro e fuori del Consiglio Comunale (dove in questa edizione simbolicamente avveniva la Balinese) e ancora gruppi compatti di piccole ballerine in tutù violetto, hip hopttare dichiarazioni in ebraico sullo stato delle cose presenti, danzatori africani super ritmici, chi vuole dire qualcosa a tutti i costi, chi presenta ricerche sullo spazio, chi si propone cambiando tutto last minute, chi samba.
Balinese è tutto questo ma non solo e potenzialmente molto ancora. Molto diversa dalla scorsa edizione si è confermato un appuntamento pomeridiano durante i 2 weekend del festival, attraversato da pubblico e molti artisti.
Tra gli altri progetti speciali c’era il bellissimo progetto di Mette Edvardsen Time has fallen asleep in the afternoon sunshine anch’esso in dialogo con i luoghi di Santarcangelo, si inseriva dentro la Biblioteca Comunale. Singolarmente invitati nelle sale della biblioteca o nel suo giardino. L’accompagnatore si rivelava un libro vivente e in mezzo ai tanti libri sugli scaffali quel libro a memoria veniva parlato e udito creando una relazione arcaica e allo stesso tempo nuova proprio perché così assente dalla nostra vita odierna. Ispirato a Fahrenheit 451, imparare un libro a memoria (By heart, in inglese) amplifica la partecipazione emotiva e forse in un certo senso vuol dire anche riscriverlo, imparare un libro “con il cuore” è un’attività continua, priva di méta, tra memoria e oblio.

Forse uno degli spettacoli più belli è stato Timeloss di Amir Reza Koohestani / Mehr Theatre Group.
La rarità di poter assistere un’ora di spettacolo in farsi, lingua dolce e rotonda, due attori seduti, due tavoli, due tagli di luce quadrati e circostanti i tavoli. Due spot paralleli ma non uguali. Si apre il dialogo. Che ripercorre con gli stessi attori il lavoro del 2003 Dance On Glasses. Con la stessa incapacità di agire e filtrati dalla distanza del tempo. Il lavoro dal testo denso e ricco si confronto con il passato concentrandosi sul suo rifiuto e non sul rimpianto, affrontando la percezione di esso.

Il coreografo e danzatore Arkadi Zaides con i progetti Archive in scena al Lavatoio e l’installazione Capture Practice permanente durante tutto il festival, si interrogava su una questione ampia e universale: qual è il potenziale di violenza contenuto in ogni corpo individuale e quale prezzo paghiamo, a livello collettivo, per controllare l’altro. Attraverso le immagini del B’Tselem Centro di informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori occupati, Zaides incorpora e si identifica gradualmente materiali violenti e crudi appropriandosi e estraendo gesti e voci. Così il suo corpo si trasforma in un archivio vivente mettendo in scena questioni sulla partecipazione e la responsabilità.

Tino Seghal ci regala, per gli amanti della danza e della ricerca sul corpo, il momento forse più bello e interessante di tutto il festival. Un dialogo netto e chiaro finalmente solo sul corpo, sulla memoria della danza, volendo anche sul senso del copyright o copyleft, dipendendo da quale punto di vista lo vogliamo approcciare. Semplicissimo: corpo nudo danza sull’asfalto di fronte all’entrata posteriore del teatro Lavatoio. La strada implica nessun biglietto. Gente che passa e si accumula ad osservare il corpo scultoreo e flemmatico di Frank Willens, alle volte mamme corrono via con i rispettivi bambini, o adolescenti sorridono chissà se per la nudità o perché la danza non era di loro gradimento. Seconda parte in teatro, niente suono, niente scenografie, niente luci di scena. Spazio vuoto, un corpo nudo che danza, non per strada ma nel suo habitat classico, l’interprete questa volta è Boris Charmatz. In entrambi i momenti il corpo ci fa ripercorrere la storia delle danza del XX Secolo attraverso frammenti di coreografie di tanti autori. Una sorta di presa diretta con la storia, che va al di là della danza in sé e ci fa riflettere più ampiamente sulle pratiche coreografiche e i rispettivi modi di vedere i corpi, in un ordine estetico di carattere museale. Si riconoscono velocemente Trisha Brown, Wim Van de Keybus, Anne Therese des Keesmaker, Xavier Le Roy e tanti tanti altri. Quindici anni dopo la prima lo spettacolo viene presentato a Santarcangelo offredoci prospettive diverse sul teatro e sulla pratica di Seghal, già Leone d’Oro per il miglior artista alla Biennale di Venezia del 2013. (untitled) (2000) ci propone di riflettere, cercando di immaginare come potrebbe essere il mondo se il sistema dei valori della società fosse appreso dalla danza e dalla coreografia. La presenza e trasformazione degli atti, la simultaneità di produzione e de-produzione della danza e del coreografico possono costituire un modo di organizzare la società?
Livia Marques