
“Si sentono tanti suonatori tecnicamente impeccabili, in grado di sfornare esecuzioni con l’efficienza e la prevedibilità di una stampante. E magari anche piacciono, perché siamo abituati a farci rassicurare da ciò che è standard. Ma l’arte è un’altra cosa. L’arte deve emozionare, e l’emozione autentica non è mai standard.”
Così Stefano Grondona, a caldo, dopo il memorabile concerto rodigino tenutosi alla Sala degli Arazzi dell’Accademia dei Concordi, nella soirée dell’Associazione Musicale Francesco Venezze, in collaborazione con Asolo Musica, domenica 17 gennaio 2016.

Interprete d’eccezione, riconosciuto come tale fin dai suoi esordi anche dal suo maestro, anzi, dal maestro iconico del Novecento chitarristico, Andrès Segovia, il celebre Grondona si è evoluto nel tempo come innovatore carismatico nella storia interpretativa del suo strumento, e ciò gli ha fatto meritare anche prestigiose onorificenze, che superano l’ambito musicale, come la Creu de Sant Jordi (2011), conferitagli dalla Generalitat de Catalunya, assegnazione ancor più pregnante perché è rarissimo che il premiato non sia catalano, per arrivare a quelle tutte italiane di Cavaliere della Repubblica (2012) e di Commendatore (2015). Questa conclamata autorevolezza si traduce in una presenza scenica di rigorosa semplicità: Grondona si è presentato al pubblico rodigino in un completo informale blu notte nell’atmosfera soffusa della sala, dovuta all’uso di una sola lampada puntata sulla sua inseparabile chitarra Torres.

Dunque, senza orpelli la sua chitarra virtuosa ha tenuto il pubblico con il fiato sospeso durante l’intero concerto.
Inizio scaramantico con il Tombeau pour Monsieur de Blancheroche, scritto da J.J. Froberger per il famoso liutista seicentesco deceduto cadendo da una scala, ed eseguito nella trascrizione per chitarra di Grondona stesso, che ha magnetizzato il pubblico con un’interpretazione minimale e stilisticamente impeccabile. Ogni nota è sgranata come una perla preziosa, capace di conservare la sua necessaria individualità anche nella pienezza degli accordi, o di brillare isolata nel silenzio, come il timbro improvviso di un colore puro, nella suggestione quasi astratta dei brani a seguire, d’ispirazione iberica: dalla Sonata in re minore K 213 di Domenico Scarlatti alle più calde Dedicatoria, La Maja de Goya e Danza española n. 5 di Enrique Granados, trascritte da Miguel Llobet. Prima che Grondona si impegnasse con sensibilità e determinazione per la riscoperta di Llobet, questo straordinario musico catalano era stato raramente compreso nella sua potente identità creativa di esponente del Modernismo barcellonese. Dunque, con Granados e Llobet, fra l’altro entrambi pittori, si arriva al cuore tardo-ottocentesco del concerto e le Canciones catalanas, sapientemente armonizzate da Llobet, struggenti di una malinconia impregnata di sogni traditi, conquistano un pubblico attento e affascinato, rivelandosi un tramite suggestivo nel percorso verso il Novecento.
Impressionismo, post-impressionismo, e de-strutturazione del tema: ecco allora la chitarra di Grondona impennarsi di improvvise dissonanze e allusivi silenzi, nell’essenziale Homenaje (pour le tombeau de Claude Debussy) di Manuel De Falla, brano del 1920, che segna l’avvio della chitarra novecentesca.

Ma anche l’Homenaje, a sua volta, si spoglia della sua autosufficienza, per farsi premessa del Nocturnal after John Dowland op. 70, l’ardua partitura di Benjamin Britten, che si erge a periglioso banco di prova per l’orecchio dei presenti, che qui devono abituarsi ad una musica implacabilmente spogliata di ogni orpello consolatorio. Un capolavoro d’inquietudine, che Grondona ci restituisce con quel commovente misto di rigore e struggimento, che rappresenta la cifra distintiva della sua arte d’interprete.
Il pubblico applaude calorosamente e così si merita due bis, Oriental e Torre Bermeja di Albeniz, sempre nelle trascrizioni di Llobet, vere e proprie riscritture degli originali pianistici, che suonano paradossalmente ancora più autentiche degli originali, nelle mani di un interprete come Grondona, che vive la musica e mai l’esegue.
Le stesse sue incisioni, che pure nascono con una assolutezza che è delle cose che restano, affascinano proprio perché non perdono, neppure nella definitività della registrazione, la fragranza dell’hic et nunc, ed é per questo che, a fine concerto, s’impone la domanda all’artista su quale direzione prenderà la sua ispirazione, dopo le ultime incisioni, Sin palabras, Quadrat d’Or, Nocturnal e Mazurkas y Sardanas.
Stefano Grondona non spreca parole, e mi risponde (Fernando n.d.r.) “Sor”, un classico della cultura chitarristica, e, dopo Llobet, un ulteriore percorso a ritroso nei sentieri della Catalogna.
“È giunto il tempo di una nuova interpretazione.” aggiunge il Maestro, e a noi non resta che attenderne l’uscita.
Roberta Reali