
Il film della regista Sophia Takal, che abbiamo incontrato a Venezia presso il Club73 della Biennale, parla della storia di due donne, del loro essere attrici e della gelosia che indissolubilmente le porterà ad un tragico finale. Always Shine si distingue per una messa in scena cruda e egoica. Un movimento tellurico fra due intime amiche, Anna e Beth, attrici (Mackenzie Davis e Caitlin FitzGerald) che si accusano di rubar l’una il lavoro all’altra: un pavoneggiarsi mefitico da prime donne orchestrato egregiamente dai due ruoli di scena. Verso fine del plot, il colpo di scena, il détournement scandito da una colonna sonora curata ed elegante (non a caso a firma di Michael Montes) prende spazio in una silenziosa area del “big sur” fuori Los Angeles, dove le due cercavano distacco e pace.
Il tenore dei dialoghi colpisce particolarmente nell’aderenza alla realtà teenagers dell’oggi:« si, forse ho il tuo numero, no, siamo amici su facebook, dai allora ti chiamerò ». Lo spazio del recitato mette in risalto, attraverso semplici e banali giochi di paesaggio e primi piani, la freddezza spietata del lavoro culturale iniettati negli spazio-tempo accelerati di Hollywood.
Le attrici si susseguono per tutta la durata del film, che a tratti ricorda alcune serie americane anni ’90.
Un intreccio di menzogne e mezze verità farà precipitare il tutto in un tenero omicidio: la prima donna, mascolina (Anna) strozzerà l’altra (Beth) in un eccesso di rabbia e bipolarismo. Quante giovani attrici faranno questa fine ?
Magistrale la mise-en-scène delle due ma carente di contenuto la sintesi della regia. Le due attrici inoltre, scandiscono al meglio le loro partiture ma rimangono sulla superficie, forse non avendo avuto troppo tempo per entrare a pieno nel ruolo…
Durante la chiaccherata al Club73, Takal ci confessa di come l’insieme della troupe fosse di veri professionisti, ma anche ormai un rodato gruppo di “amici”. Cionostante questo “omicido-psicologico” manca nella sua radice politica: è per causa del mondo del lavoro che ciò accade e non certo solo per le gelosie individualistiche. Ma ciò,, agli americani del Nord, sfugge da sempre, giacché loro, questo mondo del lavoro lo hanno procreato.
La fotografia scade in operazioni kitsch, la narrazione si blocca su punti fermi: l’attaccamento al carrierismo, la periferia al mare dove riflettere e far jogging, il belloccio provinciale che s’intorna tutte (Lawrence Michael Levine) : «ti ha già fatto il dipinto ?» chiede il padre di lui , entrando in scena con l’attrice omicida.
l’omicidio si rivela nel transfer psicologico: il fratellino di Jesse gioca a strozzare la madre e Anna rivede sé stessa, nel suo trauma-omicida, la notte prima nell’atto di strozzare Beth («quella troia che mi ha rubato il lavoro»). E’ un palpitare sino alla realizzazione, dinanzi alle auto della Polizia, il film si chiude con Anna in lacrime, ormai uscita dalla furia e priva di ogni dignità…
Prendendo in prestito all’arte concettuale un grande saggio, direbbe Donald Judd: Always Shine, « non aggiunge ne toglie nulla ».
Gaspar Ozur
Always Shine
Produttori: Sophia Takal, Lawrence Michael Levine, Pierce Varous
Regista: Sophia Takai
Sala Perla, h.10.30 31 agosto 2016
ca. 89′