Venezia 73 / Les Beaux Jours d’Aranjuez. Creazione, arte e vita. Un dialogo secondo Wim Wenders

73esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Wim Wenders al photocall di Les Beaux Jours d'Aranjuez, Credits Octavian Micleusanu
73esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Wim Wenders al photocall di Les Beaux Jours d’Aranjuez. Credits Octavian Micleusanu

Inizia con una macchina da scrivere, un juke-box e una finestra. Finisce con un dipinto.
Tre livelli d’osservazione. La macchina da presa di Wenders riprende uno scrittore intento ad osservare oltre ad una finestra il frutto della sua immaginazione: due personaggi, un uomo e una donna, che in un bel giorno d’estate sono seduti in giardino, cullati da una dolce brezza, mentre parlano e osservano la silhouette di Parigi oltre la terrazza.
Non si può dire che il regista tedesco classe 1945 abbia smesso di sperimentare. Les Beaux Jours d’Aranjuez, tratto dal romanzo di Peter Handke, è un film che merita pienamente di essere in concorso alla 73esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia . È un’opera all’incrocio tra letteratura, arte, teatro… un film che racconta una storia priva di tempo, in uno spazio dilatato, onirico, idilliaco: un vero e proprio giardino dell’Eden (non privo di mela), dove i due protagonisti interpretati da Reda Kateb e Sophie Semin cominciano la loro conversazione sulla vita, l’amore, le esperienze sessuali, l’infanzia, i ricordi, l’estate, le differenze tra uomini e donne.
Come nel non perfettamente riuscito Every thing will be fine (2015) con James Franco e Charlotte Gainsbourg, Wenders sperimenta l’uso del 3D, ma questa volta il suo utilizzo è pienamente giustificato dalla scelta stilistica e registica di rappresentare un quadro assai statico, nel quale i personaggi compiono pochi movimenti, fornendo così un altro tipo di profondità all’immagine. La tecnologia 3D aiuta il regista a dare profondità al suo palcoscenico, scava nel profondo e ricrea un mondo nel quale i due personaggi vivono di piccoli gesti, dando l’idea di uno schermo nello schermo. L’uso del 3D stride con lo stile registico della messa in scena: pochi movimenti di macchina, poco montaggio, poca azione, anzi come deciso dai personaggi, nessuna azione, se non quella attivata dalla parola continua, impetuosa, straripante e ridondante della loro conversazione.
Mentre la musica di un vecchio juke-box scandisce il ritmo dei tasti della macchina da scrivere pigiati dallo scrittore che immagina i suoi protagonisti, Wenders sfrutta l’immagine statica e la parola dinamica per inscenare l’essenza dell’atto creativo. Ciò che il regista mostra non è altro che il frutto della fantasia del dio-scrittore.

73esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il regista Wim Wenders e gli attori Reda Kateb, Sophie Semin e Jens Harzer al photocall di Les Beaux Jours d'Aranjuez, Credits Octavian Micleusanu
73esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il regista Wim Wenders e gli attori Reda Kateb, Sophie Semin e Jens Harzer al photocall di Les Beaux Jours d’Aranjuez, Credits Octavian Micleusanu

La creazione avviene nella quasi totale immobilità, dietro ad una scrivania (e dietro ad una macchina da presa praticamente immobile). Ma chi è veramente padrone di ciò che sta creando? L’autore o la sua creazione? È possibile che ad un tratto i personaggi agiscano, che decidano del loro destino e delle loro azioni, suggerendo allo scrittore cosa scrivere su carta? Infatti, chi cerca disperatamente di muoversi, di sfondare i propri confini, è proprio l’opera d’arte, i due personaggi protagonisti dell’affresco estivo. Dopo l’atto creativo privo di movimento, giunge infatti la corruzione dell’opera, data da ciò che inserito nel tempo tende naturalmente a muoversi e a cambiare: simbolicamente (ma soprattutto ironicamente) è il personaggio maschile che mangia la mela della corruzione, quella che spinge i due personaggi ad agire. I due non riescono più a stare dentro i margini e le regole loro assegnate, perché sono vivi: decidono dunque indipendentemente da chi li scrive e scelgono perciò l’azione, che li guida inevitabilmente nel mondo esterno composto di sogni, passioni e ricordi, verso il mondo oltre la terrazza.

Quello del regista tedesco non è forse un tipo di cinema a cui la contemporaneità è abituata o verso cui essa tende, ma resta in ogni caso un cinema di cui ancora si ha bisogno. Wenders regala a Venezia (curiosamente un altro luogo fuori dal tempo) uno dei suoi film più coraggiosi e intimisti, raccontando semplicemente di quell’attimo in cui si è, prima dell’azione corruttrice che porta alla fine, al non essere… e poi ad un nuovo inizio. Si potrebbe dire un omaggio all’arte e alla vita.
Lo scrittore infine abbandona la sua postazione per tornare alla realtà, lasciando liberi i suoi personaggi; Wenders si ritira sempre più all’interno, nella casa, nell’oscurità che non permette di filmare, e finisce per inquadrare un dipinto nel quale poi l’immagine scompare definitivamente. Un addio, o meglio un arrivederci al prossimo atto creativo.
Lucio Ricca

Les beaux jours d’Aranjuez (3D)
Venezia 2016 – In concorso
Wim Wenders
Francia, Germania, 2016
97′

 

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