Risulta difficile limitarsi ad analizzare la sola esperienza cinematografica di Carmelo Bene, circoscritta ad un periodo di appena sei anni, dal 1967 al 1973, senza citare la vasta produzione teatrale e scritta che l’autore salentino ha composto nel corso della sua vita. Trasferitosi a Roma dalla provincia di Lecce, Bene frequenta discontinuamente accademie teatrali e conduce una vita sregolata, finendo anche spesso arrestato; allo stesso tempo, esordisce sul palcoscenico con Caligola di Alberto Ruggiero e si approccia all’Ulisse di James Joyce, scoperta che condizionerà fortemente la sua poetica e, di conseguenza, la sua cinematografia. Dopo dieci anni dedicati al teatro, nel 67′ arriva la proposta da parte di Pier Paolo Pasolini di partecipare al suo film Edipo Re: inizia, con l’adattamento di un’opera teatrale, l’esperienza di Bene al cinema, che esordirà alla regia l’anno successivo con Nostra Signora dei Turchi.

La prima vera e propria esperienza dietro la macchina da presa è in realtà Hermitage, cortometraggio che Bene dirige nel 1968 per prepararsi alla successiva lavorazione di Nostra Signora dei Turchi: nonostante i due film abbiano una propria personale identità, risaltano subito quelli che saranno i principali caratteri del cinema beniano, come il rapporto con l’impostazione e la recitazione teatrale, le problematiche legate all’essere e al riconoscimento del proprio io e l’ispirazione a maestri del muto come Buster Keaton e C. T. Dreyer. Nello stesso anno, Nostra Signora dei Turchi esordisce alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film, benchè abbia una trama di fondo, collegata alla strage di 800 martiri a Otranto da parte dei Turchi, è composto da una sequenza di situazioni, immagini e monologhi scollegati, isolati e autonomi. L’influenza di Joyce è evidente, Bene produce uno stream of consciousness non solo verbale ma anche di immagini, gesti e suoni. La pellicola si contorce, vengono applicate distorsioni visive e sonore, come anche l’aspetto del protagonista, identificabile in Bene stesso, si modifica più volte nel corso della “non-narrazione”. Il teatro, la religione, la cultura territoriale e storica (Bene diventa una sorta di paladino collegandosi alla produzione di Tasso) sono temi insiti nella pellicola, ma in particolar modo lo è il tema dell’io: il monologo interiore del regista, rafforzato dalla componente visiva, esprime il suo rapporto con il proprio ego e con la sua (auto)distruzione, causata anche da forze esterne, i Turchi invasori appunto. A differenza delle seguenti produzioni, Nostra Signora dei Turchi è un’opera tratta d un romanzo e spettacolo teatrale di Bene stesso, essendo completamente avulsa da suggestioni e prodotti di altri. Il successo a Venezia (vince il premio speciale della giuria) conferma il suo apprezzamento da parte dell’élite culturale europea, mentre nelle sale italiane suscitò pesanti polemiche che degradarono addirittura in atti vandalici e accuse nei confronti del regista. Bene aveva creato un cortocircuito nel linguaggio cinematografico stesso, l’intenzione di demolire le fondamenta di quella da lui definita “l’ultima arrivata, la pattumiera di tutte le arti” caratterizzerà anche le seguenti produzioni filmiche.
L’anno successivo dirige Capricci, che lui stesso definisce “delirante, intenzionalmente sgradevole, non sta né in cielo né in terra, brutto a vedersi, senza infingimenti, nudo, crudo, disgraziato”, ovviamente da declinare in ottica beniana di sovversione e distruzione della materia cinema. Nel 1970 Don Giovanni, il suo terzo lungometraggio, viene accolto bene dalla critica ma ottiene un pessimo riscontro da parte del pubblico, come avenne per le due opere precedenti. L’adattamento del capolavoro di Barbey d’Aurevilly porta avanti il discorso sulla sequenzialità, comprendendo scene composte da moltissime inquadrature in rapida successione, alcune della durata nel’ordine dei frame, da risultare così appena percettibili e svolgendo funzione puramente subliminale. Il suo quarto film, Salomè, è tratto da una messa in scena teatrale dello stesso Bene, che interpreta qui Erode: ispirato alla versione di Oscar Wilde, il regista propone una scenografia con colori accesi e luci psichedeliche, dando al tutto un gusto decisamente teatrale. La sua ultima opera cinematografica è Un Amleto di meno, reinterpretazione beniana della tragedia di Shakespeare, riprendendo in molti aspetti le sue rappresentazioni teatrali del dramma. L’adattamento tinge l’originale storia con aspetti grotteschi e comici, creando un “non-genere” che si pone a metà della classica divisione bipolare del teatro enunciata da Aristotele, unito ad elementi di metateatro (e quindi metacinema) e di decostruzione del linguaggio mediale.

Seppur limitato ad un breve periodo temporale, l’approccio al cinema di Carmelo Bene riesce a farsi partecipe della sua poetica e del suo pensiero, che, nel corso dei decenni, ha abbracciato poliedricamente gran parte delle arti e dei mezzi di comunicazione; oltre al teatro e al cinema, la sua produzione scritta è vastissima, come anche le sue apparizioni televisive sono entrate a far parte della storia della retorica italiana. Iconoclasta, provocatore, sperimentatore, Bene è tra le figure del Novecento più discusse e studiate in Italia, avendo avuto la forza e l’ego di approcciarsi in maniera tanto ardita alle arti, e, per poco ma non in maniera minore, al cinema.
Andrea Damiano