L’attesissimo Festival del Cinema di Venezia è alle porte e si preannuncia come un evento cinematografico di eccezionale rilevanza, nonostante le sfide poste dallo sciopero degli attori americani.
Quest’anno, la città lagunare è ancora una volta il centro focale dell’arte cinematografica dopo l’appuntamento di Cannes, ospitando una lineup eccezionale, considerato che tutti gli addetti ai lavori avevano previsto un’edizione ammutinata, simile a quelle della pandemia, in seguito all’annuncio della rinuncia di Challengers di Luca Guadagnino.
Manifesto disegnato da Lorenzo Mattotti per la Biennale Cinema 2023
Il mondo del cinema è stato infatti recentemente scosso dallo sciopero degli attori e sceneggiatori americani, che hanno espresso le loro preoccupazioni riguardo a retribuzioni e trattamenti iniqui. Questo movimento ha attirato l’attenzione globale e sollevato interrogativi importanti sull’equità nell’industria cinematografica. Nonostante questo contesto di tensione, il cinema non si ferma e l’ottantesima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica si prepara a dare il benvenuto ad alcuni dei più grandi cineasti mondiali, del calibro di Michael Mann, Sofia Coppola, Bradley Cooper, Roman Polanski, Woody Allen, Yorgos Lanthimos, nonché gli italiani Matteo Garrone, Stefano Sollima, Giorgio Diritti e Liliana Cavani, Leone d’oro alla carriera – con l’attore Tony Leung Chiu-wai (“La città dolente”) – offrendo un’opportunità unica di celebrare il potere e l’arte del cinema, in un momento del tutto particolare. Mentre il mondo del cinema americano affronta questioni sacrosante come l’equità, l’inclusività e il trattamento giusto degli attori, a dimostrazione che il cinema è un’industria seria, il Festival di Venezia si erge come un faro di speranza in un mare di incertezza, dettate anche dal conflitto ucraino. L’arte cinematografica ha il potere di stimolare conversazioni importanti, di ispirare empatia e giustizia e di spingere per un cambiamento significativo.
I film selezionati per la lineup di quest’anno avranno la possibilità di affrontare questioni cruciali e far emergere voci originali. Significativo il quesito posto dal presidente Barbera: “Viviamo davvero in un momento storico interessante? L’interrogativo affiora quando sembriamo renderci conto che un combinato disposto di incertezze, difficoltà e disordini, si sta addensando sulle nostre teste di spettatori. Uno sciopero quasi senza precedenti scuote le fondamenta stesse dell’industria cinematografica, già percorsa da tensioni profonde per le conseguenze della recente pandemia e per le trasformazioni in atto in un mercato incerto sul proprio futuro. Incombe la minaccia che le risorse finanziarie, dopo un biennio di investimenti ingenti come mai prima, possano bruscamente ridursi sin dalla prossima stagione”. Daniele Bonomelli
80°Mostra d’Arte Cinematografica La Biennale di Venezia 30/08 – 9/09/2023
In un’estate in cui il caldo non risparmia nessuno, l’esposizione dedicata a Mario Nigro a Milano offre un’opportunità rinfrescante (e gratuita!) per immergersi nell’arte e nella cultura.
Opera firmata da Mauro Nigro esposta al Palazzo Reale di Milano
Un viaggio attraverso le tappe salienti della carriera di un maestro dell’arte astratta spesso sottovalutato e fino a pochi anni fa dimenticato, come il pistoiese Mario Nigro, arricchisce l’animo di chiunque scelga di attraversare la soglia di Palazzo Reale. L’esposizione, intitolata “Mario Nigro. Opere 1947-1992“, è il risultato di una collaborazione tra il Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale, il Museo del Novecento e Eight Art Project, con la partecipazione dell’Archivio Mario Nigro. Le porte di questa eccezionale mostra si sono aperte il 14 luglio, offrendo al pubblico la possibilità di immergersi nell’universo creativo di Nigro fino al 17 settembre presso Palazzo Reale e fino al 5 novembre presso il Museo del Novecento. Con oltre centoquaranta opere in mostra, e con una curatela precisa ed efficace, l’esposizione offre una panoramica completa della carriera artistica di Mario Nigro, dalla sua opera del 1947 fino all’ultimo capolavoro del 1992. Tra quadri, sculture tridimensionali, lavori su carta e una ricca selezione di documenti, i visitatori avranno l’opportunità di immergersi nella vastità della produzione artistica di Nigro. Particolarmente significative sono le opere che furono esposte alle Biennali di Venezia e alla X Quadriennale di Roma, eventi che hanno contribuito a plasmare il suo percorso artistico. La mostra non si limita a offrire una semplice esposizione cronologica delle opere di Nigro, ma traccia i momenti chiave del suo linguaggio artistico in continua evoluzione. Dai primi anni Quaranta, caratterizzati da un’approccio sperimentale, fino alla maturità artistica, con un netto orientamento verso strutture compositive astratte e geometriche, l’arte di Nigro riflette un percorso di esplorazione e scoperta. Le opere di Mario Nigro, nonostante il caratteristico approccio astratto, sono intrise di un’atmosfera narrativa in cui il “ritmo“, le “forme” e il “tempo” giocano un ruolo cruciale. Tale approccio è il risultato di una profonda intersezione tra l’arte, la musica e il sapere scientifico. La sua capacità di tradurre concetti complessi in opere visive che parlano direttamente all’osservatore testimonia la sua abilità di unire diverse discipline in un’espressione artistica unica. Dan Bonahms
Una serata memorabile all’insegna del rosso Campari. Tra i tanti ospiti da tutto il mondo del Campari Discover Red si annoverano Alessandra Ambrósio, Charles Melton e Luke Evans. Non solo Venezia dunque. Campari è tornato per il secondo anno consecutivo al Festival de Cannes, di cui è partner ufficiale, e l’ha fatto alla grande, organizzando l’ evento “Discover Red” al quale hanno partecipato numerose star del cinema e della moda.
Campari a Cannes. Courtesy gettyimages
La serata è stata un’occasione unica per gustare le creazioni culinarie dello chef Christian Sinicropi, fresco delle due stelle Michelin, che ha curato i quattro piatti del menu, mentre Tommaso Cecca, responsabile dello storico “Camparino” nella Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, ha abbinato le creazioni di Sinicropi con sofisticati cocktail a base Campari, ovviamente. Tra le specialità si potevano gustare il classico Negroni, il Campari spritz, il Negroni Sbagliato e il signature Red Carpet—Edizione Cannes ispirato alla Riviera e al cinema. L’evento si è tenuto presso l‘Hôtel Martinez by Hyatt. “Essendo questa la seconda volta che siamo partner ufficiali del Festival de Cannes, l’obiettivo di Discover Red era creare una serata che riunisse le icone di Campari e del cinema, entrambe fonti di ispirazione indimenticabile”, ha dichiarato Julka Villa, responsabile del marketing globale del Gruppo Campari. “Come uno dei festival cinematografici globali più celebrati, il nostro evento ha tratto ispirazione dal fascino aspirazionale del Festival di Cannes, portandolo al livello successivo e offrendo l’esperienza elevata che le persone si aspettano sia da Campari che dal Festival. Per fare ciò, ogni momento di Discover Red ha catturato la relazione unica tra Campari, il cinema e il Festival, immergendo gli ospiti in questo mondo attraverso tutti i sensi e la serata è stata un altro ottimo esempio di come Campari superi le aspettative.” Dan Bonahms
Lo sceneggiatore e regista di “Three Billboards” e “In Bruges” Martin McDonagh (miglior sceneggiatura) riunisce Brendan Gleeson e Colin Farrell (coppa Volpi) in questa storia deliziosamente malinconica ambientata nella più remota Irlanda degli anni ’20.
L’attore Colin Farrell, coppa Volpi come protagonista di The Banshees of Inisherin, del regista Martin McDonagh (miglior sceneggiatura), al photocall del film, nell’ambito della 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Credits Octavian Micleuusanu
Tragedia e commedia sono perfettamente abbinate in quest’ultima cupa e corvina impresa di Martin McDonagh, che, come il film precedente dello sceneggiatore-regista Three Billboards Outside Ebbing, Missouri(2017), si garantisce un’ottima posizione per la corsa ai prossimi Oscar. Riunite le due star del lungometraggio d’esordio di McDonagh del 2008 “In Bruges”, il film ne racconta la rottura improvvisa e inspiegata dell’amicizia, oscillando in modo formidabile tra l’esilarante, l’orribile e lo straziante.
Il regista Martin McDonagh, premiato per la miglior sceneggiatura di The Banshees of Inisherin, al photocall del film, nell’ambito della 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Credits Octavian Micleusanu
È il 1923 e sull’isola immaginaria di Inisherin si possono sentire i suoni della guerra civile irlandese dall’altra sponda del mare, fornendo il miglior rumore di sottofondo per le crude lotte intestine a cui assisteremo nella dimenticata Inisherin. Ogni giorno alle 14:00, l’allevatore Pádraic (Colin Farrell) fa visita al suo migliore amico, Colm (Brendan Gleeson), e i due vanno al pub assieme, puntuali come il gallo. Sono una coppia improbabile ma apparentemente inseparabile: il primo un contadino semplice che può parlare per ore di sterco di cavallo; il secondo “un pensatore” che scrive musica, suona il violino e cade in preda ad attacchi di disperazione esistenziale. Le circostanze dell’isola li hanno resi inseparabili, almeno fino ad un giorno qualunque, un cinematografico “Oggi”.
L’attore Brendan Gleeson nel bagno di folla del red carpet del film The Banshees of Inisherin, premiato con la miglior sceneggiatura e miglior protagonista maschile al 79° Festival del Cinema di Venezia. Credits Octavian Micleusanu
E“Oggi”, invece, è diverso. Quando Pádraic bussa puntuale alla porta di Colm alle 14:00 per andare assieme al pub, questo si siede semplicemente sulla sua sedia, fumando e ignorando l’amico dall’altra parte della porta. ‘Perché non dovrebbe aprirmi la porta?‘ Pádraic chiede alla sorella più intelligente Siobhán (Kerry Condon), con la quale condivide l’umile casa da cui lei deve costantemente cacciare l’amato asino e amico del fratello. ‘Forse semplicemente non gli piaci più‘, risponde Siobhán, una battuta semplice che presto si rivela terribilmente vera. Depresso dalla sensazione del tempo che scivola via e determinato a fare qualcosa di creativo con gli anni che gli rimangono, Colm ha deciso di escludere Pádraic dalla sua vita, liberandosi. “Che cos’ha, 12 anni?” – lo prende in giro Dominic (Barry Keoghan), un ragazzo del posto che nutre il sogno di fidanzarsi con Siobhán, la solerte lettrice sorella di Pádraic, ma non ha speranze di scappare dal padre brutale e alcolizzato. Colm è determinato e drammaticamente serio e fa una solenne promessa e minaccia: ogni volta che Pádraic gli parlerà, qualsiasi cosa dica, si taglierà una delle sue stesse dita che suonano il violino che ama. Difficile a dire il vero non pensare ad un tocco dell’irlandese serie tv “Father Ted” nell’ambientazione e nella storia di un uomo anziano e scaltro che viene esasperato dal suo compagno un po’ infantile in una remota località rurale dove la compagnia è limitata. (Quando Colm dice a Siobhán in cerca di spiegazioni per il fratello disperato, di non avere più spazio) libero per ospitare ottusità nella mia vita, lei gli risponde: “Ma tu vivi su un’isola al largo della costa dell’Irlanda!”
L’attrice Kerry Condon sul red carpet del film The Banshees of Inisherin, premiato con la miglior sceneggiatura e miglior protagonista maschile al 79° Festival del Cinema di Venezia. Credits Octavian Micleusanu
Ma proprio come la guerra può trasformare bravi ragazzi in mostri, così questo conflitto con Colm consumerà l’innata bontà di Pádraic (in paese da sempre considerato uno dei ‘bravi ragazzi di vita’, trasformando il dolore in rabbia, la generosità in meschinità e l’amore in spietata vendetta. Molti sono i momenti degni di risate citabili in The Banshees of Inisherin, che fondono la commedia delle improbabili coppie del cinema con la satira delle relazioni amicali tossiche. Ma come suggeriscono i brividi delle note di Polegnala E Todora (Love Chant) da Le Mystère des Voix Bulgares, le preoccupazioni principali di McDonagh sono in realtà ben più metafisiche. Intanto la vicina di casa di Sheila Flitton, la signora McCormick, assomiglia sempre più all’incarnazione della Morte di Bengt Ekerot de “Il settimo sigillo” di Bergman. Ridiamo in sala quando Colm dichiara che mentre nessuno ricorda le persone simpatiche tutti conoscono il nome di Mozart; e Pádraic ribatte: “Beh, io no!” ma dietro la battuta si insidia il terrore di essere dimenticati quando moriamo, ed è questo, piuttosto che qualsiasi problema di amicizia, il motore che sembra guidare l’automutilazione irrevocabile di Colm. Visivamente, il direttore della fotografia Ben Davis e lo scenografo Mark Tildesley creano interni pittorici che ricordano le tele di Vermeer e le composizioni del regista danese Carl Theodor Dreyer, mentre il compositore Carter Burwell enfatizza le qualità fiabesche del film con ritornelli che suonano come filastrocche suonate su vecchi e incrinati vinili a 78 giri. Per quanto riguarda invece il cast, si è di fronte ad un ensemble dalle note perfette, uno strumento impeccabile su cui McDonagh suona la sua danza macabra deliziosamente malinconica. Daniele Bonomelli
La 79ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica Gli spiriti dell’Isola (The Banshees of Inisherin) – Martin McDonagh
Charlie è un Professore di Lettere universitario che non lascia mai il suo appartamento.
Sadie Sink al photocall del film The Whale, di Darren Aronofsky, presentato alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Credits Octavian Micleusanu
Conduce le sue lezioni online, disabilitando la fotocamera del suo laptop in modo che gli studenti non possano vederlo. Anche la cinepresa, guidata da Darren Aronofsky e dal suo direttore della fotografia, Matthew Libatique, non si muove di casa per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto giusto una vista esterna dello squallido edificio basso in cui vive Charlie, o una breve boccata d’aria fresca sul pianerottolo davanti alla sua porta. Ma queste pause alimentano solo un pervasivo senso di reclusione.
Brendan Fraser, protagonista di The Whale di Darren Aronofsky, al photocall della 79° Mostra d’Arte Cinematogarfica di Venezia. Credits Octavian Micleusanu
Basato su un’opera teatrale di Samuel D. Hunter (a cui si deve la sceneggiatura), “The Whale” è un esercizio di claustrofobia. Piuttosto che aprire un testo legato al palcoscenico, come potrebbe fare un regista meno sicuro di sé, Aronofsky intensifica la stasi, il calamitoso senso di blocco che definisce l’esistenza di Charlie. Charlie è intrappolato – nelle sue stanze, in una vita che è andata fuori dai binari, e soprattutto nel suo stesso corpo. È sempre stato un tipo grosso, dice, ma dopo il suicidio del suo amante, il suo modo di mangiare è andato fuori controllo”. Ora la sua pressione sanguigna sta aumentando, il suo cuore sta cedendo e i semplici sforzi fisici di alzarsi e sedersi richiedono uno sforzo enorme e un’assistenza meccanica.
Cast del film “The Whale” di Darren Aronofsky, con Brendan Fraser, Sadie Sink e Hong Chau sul red carpet del Palazzo del Cinema durante la 79° Mostra d’Arte Cinematografica d Venezia. Credits Octavian Micleusanu
La taglia Oversize di Charlie è il simbolo dominante del film e il principale effetto speciale. Racchiuso in un corpo di lattice, Brendan Fraser, che interpreta Charlie, offre una performance che a volte è di una grazia disarmante. Usa la sua voce e i suoi grandi occhi tristi per trasmettere una delicatezza in contrasto con la grossolanità corporea del personaggio. Ma quasi tutto ciò che riguarda Charlie – il suono del suo respiro, il modo in cui mangia, si muove e suda – sottolinea la sua abiezione, a un livello che inizia a sembrare crudele e voyeuristico. “The Whale” si svolge nel corso di una settimana, durante la quale Charlie riceve una serie di visite: dalla sua amica e custode informale, Liz (Hong Chau); da Thomas (Ty Simpkins), un giovane missionario che vuole salvarsi l’anima; dalla figlia adolescente separata, Ellie (Sadie Sink), e dall’ex moglie amareggiata, Mary (Samantha Morton). C’è anche un fattorino della pizza (Sathya Sridharan) e un uccello che di tanto in tanto si presenta fuori dalla finestra di Charlie.
L’attrice Hong Chau sul red carpet del Film The Whale di Darren Aronofsky alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica. Credits Octavian Micleusanu
A proposito, Charlie non è l’unica balena citata in “The Whale”. Il suo bene più prezioso è, inevitabilmente, un saggio studentesco su “Moby Dick”, la cui paternità viene rivelata alla fine del film. È un bel pezzo di critica letteraria ingenua – forse la migliore sceneggiatura del film – su come i guai di Ishmael abbiano costretto l’autore a pensare alla trasposizione del racconto nella propria vita. Forse i guai di Charlie sono pensati proprio per avere la stessa funzione del classico di H.Melville. Charlie stesso diventa il punto nodale nella sua rete di traumi e rimpianti, alternatamente agente, vittima e testimone dell’infelicità di qualcun altro. Ha lasciato Mary quando si è innamorato di uno studente maschio, Alan, che era il fratello di Liz ed era cresciuto nella chiesa a cui appartiene Thomas. Mary, una forte bevitrice, ha tenuto Charlie lontano da Ellie, che è diventata un’adolescente ribelle e intrattabile. Il dramma esplode in raffiche di verbosità teatrale e balbettii. La sceneggiatura travolge la logica narrativa a favore dell’onestà emotiva. Purtroppo l’elaborato delle varie questioni comporta molti spostamenti di colpe e voli pindarici etici. Tutti e nessuno sono responsabili; le azioni hanno conseguenze e contemporaneamente non ne hanno. Argomenti del mondo reale come la sessualità, la dipendenza e l’intolleranza religiosa fluttuano liberi da qualsiasi relazione credibile con la realtà. La morale che trasuda dalle urla (e dalla costante sollecitazione dei nervi dello spettatore ad opera della colonna sonora di Robert Simonsen) è che le persone sono incapaci di disinteressarsi realmente l’una dell’altra. Che lo si pensi possibile o meno, Herman Melville e Walt Whitman forniscono una giustificazione letteraria dell’idea, tuttavia l’esplorazione del potere dell’empatia umana in The Wahle; è annullata dalla psicologizzazione semplicistica e dalla confusione intellettuale.
Il regista Darren Aronofsky al photocall del film The Whale alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica. Credits Octavian Micleusanu
Aronofsky ha la tendenza a giudicare male i propri punti di forza come regista. È un brillante manipolatore di stati d’animo e un formidabile regista di attori, specializzato in personaggi che si fanno strada, attraverso angoscia e illusione, verso qualcosa come di trascendente. Mickey Rourke lo ha fatto in The Wrestler, Natalie Portman in Black Swan, Russell Crowe in Noah; e Jennifer Lawrence in Mother; Fraser fa la sua impresa per unirsi alla loro compagnia – anche Chau è a dire il vero eccellente – ma The Whale, come alcuni degli altri progetti di Aronofsky, è purtroppo travolto dalle sue grandiose e vaghe ambizioni, finendo per risultare esagerato e fantasiosamente inconsistente. Daniele Bonomelli
La 79ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia